In occasione della giornata nazionale dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), ci sembra doveroso uno sguardo particolareggiato a un fenomeno molto diffuso nella società odierna.
Oggi la fenomenologia dei DCA sembra ampliarsi a una fascia sempre più consistente della popolazione: se prima riguardava in larga misura il periodo adolescenziale, oggi risulta in aumento anche nell’età infantile e adulta; se prima coinvolgeva prevalentemente lo scenario femminile, oggi anche la popolazione maschile ne risulta maggiormente implicata. La pandemia da COVID 19 ha, inoltre, accentuato dei meccanismi di controllo, di restrizione, di dedizione esasperata all’esercizio fisico in chi già viveva una vulnerabilità sulla questione alimentare, oltre che aumentato il consumo solitario del cibo e ridotto i momenti di convivialità ad esso legati.
Innanzitutto si ritiene importante mettere in luce la questione sociale che caratterizza i disturbi alimentari: si tratta di patologie che investono le società capitalistiche, in cui il culto dell’immagine e la spinta al consumo dominano la cultura del tempo contemporaneo; laddove il cibo è una risorsa carente e rara, non si riscontra una diffusione di queste patologie.
Anoressia, bulimia, binge eating, obesità rappresentano diverse facce di una contemporaneità che vede il corpo magro come ideale da celebrare e una tendenza alla uniformazione degli standard di bellezza, oltre che il consumo degli oggetti (l’oggetto cibo in questo caso) come illusoria possibilità di riempimento di un vuoto che non sembra mai avere estinzione.
Se nell’anoressia si assiste a una volontà di controllo ipertrofico sul corpo (il peso, la carne in eccedenza, le calorie degli alimenti, le calorie da bruciare tramite l’attività fisica); nella bulimia (che si manifesta con abbuffate e successive condotte di eliminazione) o nei fenomeni di binge eating (che si manifesta con abbuffate senza condotte di eliminazione) si assiste a una perdita totale del controllo, la compulsione all’abbuffata eccede ogni tentativo di mettere un limite.
Nella clinica dei disturbi alimentari, la questione non è tanto diagnosticare il problema alimentare, a volte basta uno sguardo per riconoscere la manifestazione del disturbo, quanto comprendere il senso che quel disturbo assume nella storia di quel soggetto particolare.
Spesso il pensiero ossessivo al cibo diventa una difesa, seppur estenuante, per non fare i conti con le proprie ferite, il rifiuto del cibo un modo per rinnegare la dipendenza dall’altro, il rapporto compulsivo col cibo una forma per sostituire l’oggetto alla relazione con l’altro.
Bisogna stare attenti quindi a pensare a campagne di educazione alimentare come unica risoluzione per la prevenzione di questi disturbi, così come a impostare piani terapeutici basati solo su un cambiamento nutrizionale. Il rischio è sovrainvestire l’oggetto cibo, che già è sovrainvestito in questi fenomeni; oltre che aumentare forme di resistenza alle cure.
Nel disturbo anoressico spesso il rifiuto del cibo è un appello rivolto all’altro: si rifiutano le cure dell’altro basate solo sull’ordine del bisogno, si è stanchi di essere considerati solo “bocche da sfamare”, ma si ricerca disperatamente lo sguardo d’amore dell’altro. Nella fenomenologia del disturbo bulimico o nell’obesità, invece può essere proprio il rifiuto dell’altro a voler essere evitato e quindi la dipendenza a un oggetto, il cibo, che non rifiuta mai.
I disturbi alimentari hanno sempre a che fare con l’amore.
Si presentano come delle vere e proprie domande d’amore.
È per questo che è importante promuovere cure che non siano finalizzate solo al ripristino delle normali funzioni dell’appetito o a una regolarità dell’indice di massa corporea ma che, senza chiaramente sottovalutare le condizioni di rischio o di limite, possano alimentare la parola del soggetto al posto del primato dell’immagine, lo scambio e l’incontro al posto della chiusura e una vita desiderante, investita di senso e progettualità.
CREDIT FOTO: dalla mostra RI-SCATTI, “Fino a farmi scomparire”. Fotografia di Emanuele Bignardi.